Surfing in North Miami


  • Presentazione a catalogo

Un nuovo inizio

  • Chiara Reale

Agli occhi accorti non può sfuggire che attraverso i lavori di Annabella Dugo si sviluppa la trama di una narrazione. È un racconto lungo oltre quarant'anni quello della Dugo, pittrice napoletana ma veneta d'adozione, che si snoda attraverso le fasi della vita, percorrendo i momenti sereni, le difficoltà, gli ostacoli, i trionfi. La forza di ogni singolo lavoro è amplificata proprio dall'accostamento agli altri; ed è perciò che questa mostra, sunto di una vita dedicata all'arte e che si tiene non a caso nella città d'origine dell'artista, è particolarmente importante: il fruitore comprende solo in questo modo il senso profondo della sua opera, l'artista trova un nuovo punto di partenza da cui ricominciare.
In tale narrazione il simbolo ha un valore importante: sia questo un sogno, un fantasma, un presagio, gli oggetti divengono a loro volta contenitori di un mondo che affonda le radici nel passato. Gli oggetti-simbolo (un ombrello, una cravatta, un abito) sono dipinti con colori vivaci, quelli che si usano da bambini e che lei non ha voluto abbandonare, per raccontare la “Storia”, quella con la S maiuscola, la Napoli del dopoguerra e quella del post-terremoto, che affolla le opere di ricordi indelebili provenienti dall'infanzia e dall'adolescenza; e la “storia piccola” e personale, quella intima, fatta di progetti, di strade percorse e di dubbi di giovane donna che si forma con i grandi maestri napoletani (fra cui Giovanni Brancaccio e Armando De Stefano, dei quali la sua pittura, sebbene nell'evolvere, conserva il cromatismo mediterraneo e la capacita’ di impostazione narrativa), e infine di artista matura che scopre la complessità della sua identità anche grazie al distacco dalla città Natale, trasferendosi definitivamente a Vicenza, in Veneto (“Identità sconosciuta”, “L'amico d'infanzia”). L'oggetto quindi, perde la funzionalità legata all'essere materia e, nella sua trasposizione pittorica bidimensionale, diviene puro concetto plasmato secondo l'esperienza che l'artista ha di esso.
Non di soli oggetti inanimati si nutre la fantasia e il simbolismo di Annabella Dugo: sicuramente meritevoli di attenzione sono gli elementi “viventi” che si fanno spazio nei suoi oli su tela. Nelle caleidoscopiche composizioni dell'artista, con il trascorrere del tempo sempre più complesse e intricate, si ritrovano figure dalle fattezze umane, buffe e inquetanti, magicamente sbucate da una fiaba di Andersen (“Il ragazzo che aveva perso le ali”, “Il ragazzo che inventò la musica”), animali delle foreste, uccelli variopinti e creature ancestrali, che si nascondono e si mostrano nella lussureggiante vegetazione che spesso fa capolino fra una figura e l'atra, creando un originale e personalissimo gioco che molto attinge dalle grottesche cinquecentesche ma anche dai decori trompe l'oeil (“Tutto quello che hai”). L'elemento naturale nei lavori della Dugo ha sempre qualcosa di misterioso, attraente e minaccioso al tempo stesso, come se fosse guardato attraverso gli occhi di un bambino. Gli alberi hanno lunghi tronchi e rami nodosi (“Lucciole e fantasmini”), le foglie sono di un verde vivido, i fiori sbocciano delicati ma sono anche bocche voraci, il sottobosco scuro lascia intuire segreti custoditi fin dalla notte dei tempi. Come nella vita reale, le tele di Annabella Dugo si dibattono fra sogno e incubo, fra piacere e paura, in una continua variazione di sentimenti e sensazioni che nascono e si riproducono gli uni dagli altri, in un movimento infinito.
La coesistenza fra bene e male, di ludico e diabolico, mostra la doppia anima del lavoro dell'artista che appare giocoso e “innocuo” solo ad uno sguardo distratto. C'è invece un grande dissidio interiore reso più acuto e tragico proprio attraverso la violenza dei colori e il loro accostamento.
La natura intimista dell'opera di Anabella Dugo non deve essere intesa come una astrazione dal mondo reale o una negazione di esso. Annabella non si trincera dietro le sue tele, non si chiude nei ricordi, ma vive il presente attraverso il suo personalissimo modo di “sentire”. Il simbolo in questo caso diviene urgenza, denuncia (“Il mio corpo umiliato”), in alcuni casi premonizione: un “sesto senso” che utilizza per rappresentare qualcosa che è nell'aria ma che non ha ancora assunto contorni ben definiti (“Piovono diamanti”).
Sebbene il legame con il passato e, più nello specifico, con il ricordo è particolarmente forte, tutti i lavori di Annabella Dugo sono una “proiezione in avanti”, dando la sensazione di guardare attraverso uno specchio magico in cui personaggi ed oggetti conosciuti raccontano storie che devono ancora essere vissute. Ogni lavoro è una porta su un mondo che deve ancora essere dipinto. Ed è d'altronde questo il grande potere che ha l'arte, soprattutto quando passa attraverso mani sapienti dai pennelli alla tela: un “qui e ora” che dura il tempo di una visita alla mostra di Annabella Dugo.




  • Presentazione a catalogo

L'empatico sentire

  • Francesca Pirozzi

Nel vocabolario iconografico personale di Annabella Dugo uno dei soggetti più ricorrenti è l’abito: una cravatta, un paio di jeans, una blusa dalla foggia classicheggiante, una camicia, una veste divina, una giacca da uomo, un costume da sirena, completi d’intimo femminile, un vestito da bambina… sono tracce disseminate dall’artista nei suoi paesaggi onirici a suggerire una inequivocabile presenza umana. «Lascia l’ovvio nel vago ed esalta l’essenziale» ammonisce Vincent Van Gogh e Dugo sembra tener fede a questo insegnamento, lasciando spesso all’immaginazione del riguardante la configurazione della figura umana e invece esaltando, attraverso una descrizione minuziosa dall’effetto straniante, la restituzione pittorica del corredo personale dei personaggi, che diviene in tal modo componente essenziale e significante dell’individuo. Cos’è l’abito – dal latino habĭtus -us, da habēre nel significato di “comportarsi” –, infatti, se non reificazione del costume di una persona, ossia del suo modo consueto di agire, di pensare, di essere? Ed è attraverso questi abiti, sospesi nel vuoto o sorretti da grucce o manichini, che l’artista ci racconta le storie degli ipotetici protagonisti delle sue visioni, che – come spiega lei stessa – «come i sei personaggi in cerca di autore di Pirandello» si affacciano alla sua coscienza postulando la narrazione delle proprie vicissitudini. Le loro sono cronache metropolitane, come quelle che talvolta intercettiamo nel flusso continuo riversato dai media, oppure gesta remote, immerse in atmosfere mitiche o leggendarie, oppure trame romantiche, intrise di sentimento, emozioni e turbamento, o ancora esotiche avventure d’impronta salgariana, nelle quali l’umano è tutt’uno con lo spirito selvaggio e archetipico della natura. Di ciascuno raccogliamo con cura gli indizi presenti sulla scena, immaginiamo le origini, il vissuto, gli incontri, la personalità, le passioni, i sogni, interpretando di quei capi l’ambientazione, le pieghe, i segni d’usura, le macchie e le immagini affioranti tra le trame del tessuto. Ci immergiamo in un tempo e in uno spazio che non ci appartengono, ma che evocano ricordi e fantasie, in paesaggi sospesi, le cui luci innaturali e i cui colori vividi suggeriscono un altrove metafisico abitato da presenze impalpabili: esseri di luce, piccoli alieni, creature spirituali, assistenti alati che, come nella migliore tradizione magica/favolistica, veicolano significati e verità che vanno dritti al cuore bambino di chi guarda. Perché molti sono pure i riferimenti al mondo dell’infanzia, a quella stagione in cui i freni inibitori della ragione non sono ancora così stringenti da mortificare la libera espressione di ogni prodotto puramente psichico, dal sogno alla semplice immaginazione. Ne risulta una dimensione figurativa incantata e fiabesca, una sorta di altrove, liberato da vincoli di logica e gravità, nel quale coesistono, in armonica consonanza estetica, segni astratti, forme allegoriche e frammenti di realtà. Il tutto narrato con un linguaggio originale, permeato da un’inconfondibile sensibilità femminea e connotato da luci e colori potenziati in modo espressionista, da semplificazioni formali candido-arcaiche, da eleganti florealismi, giochi di luci e ibridazioni d’impronta simbolista. A guidare colui che osserva nell’esplorazione di quest’universo multiforme non potranno essere né l’intelletto né l’esperienza, che sottendono invece all’agire quotidiano, ma piuttosto i sensi, ed in particolare il “sesto senso”, quel sentire sottile che richiede abbandono e distacco, quella lucida voce interiore che nasce dal cuore e che, nel ritrovato silenzio, diviene per colui che sa ascoltare, maliosa cantrice di storie. «La cosa che caratterizza me e forse la mia pittura è l'empatia: partecipo così intensamente agli eventi – guerre, storie di bambini, donne assassinate, ritrovamenti archeologici – che vorrei abbracciare tutto questo e in qualche modo tradurlo in pittura» scrive Dugo in una nota di commento al suo lavoro d’artista, e quella stessa empatia che costituisce la sua personale lente di osservazione della realtà non può non essere la lanterna di Diogene per chi, contemplando il mondo attraverso le sue tele, ne ricerca i reconditi significati.