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  • Racconto-presentazione al catalogo della mostra personale "Costumanza" di Annabella Dugo.

I CIELI DELLA SERA

  • di Gerardo Pedicini

Dello scrigno ricordava ogni fessura, ogni angolo smussato.
Era stato sempre lì, come ora, di lato, ai margini del piano di marmo come incastra-to nel comò a specchio della stanza della madre. E ritrovarlo nella penombra calda e consunta, come sfatta dall'odor di cera, le diede un'intensa sensazione di insostenibi-le attesa. Come se lei, la mamma, dal letto, la guardasse compiaciuta e divertita. Pro-prio come un tempo. E, proprio come un tempo, appena arrivata, aveva pregato pa-renti e amiche di lasciarle sole lì, nella stanza, tra gli spessi e tetri tendaggi che oscuravano i vetri opachi del balcone.
Non certo per nascondere lacrime che non venivano ma per un bisogno intimo, da lungo tempo radicato. Di pudore, non si muore: le diceva sempre la mamma. Nè di pietà. E lei, ormai, si sentiva lontana, e di molto, da queste fastidiose flaccidezze. Era abituata a ben altro; e piú niente, inti-mamente, la toccava.
Girò lo sguardo con calcolata lentezza, ruotando sui tacchi. Niente era cambiato: nè i mobili, nè la stanza, nè quell'odore acre come di mosto che sempre girava per la casa. Anzi, ora era piú intenso. Frizzante si mescolava come consumandosi nel ri-succhio delle fiammelle dei candelabri ap-parecchiati ai piedi del letto. La luce tremo-lante e come fiottata faceva ballare le om-bre sul soffitto a velatura. Lì, negli anni degli anni, Don Casimiro vi aveva lasciata la sua impronta. Una eterea figura femminile, in azzurro, coi capelli biondo rame raccolti a tuppo e, in alto, da una cornucopia una cascata di fiori. Il cielo come il vestito az-zurro, di un azzurro tenero come verde, era sciabolato da una luce distesa, da calmo mezzogiorno.
Alzò gli occhi: ricercò invano ie screpola-ture che come ferite attraversavano il viso della donna. Le fiammelle balbettando ri-succhiavano l'aria come se volessero volu-tamente oscurare la stanza. illuminavano solo lo specchio del comò.
E lì, lei, ora guardava e vi vedeva riflessa la mamma. Il viso smagrito, incavato come un nido di tortora, distante e come indurito sembrava non appartenerle. Era come di un'altra, senza espressione, come un'om-bra. Le occhiaie rinserrate, il naso affilato e un corpo come rosicchiato che appena appena s'intravvedeva sotto le lenzuola , le diede un'infinita tristezza. E poi lo scrigno: le scanalature a libro del coperchio e della base e le asticelle verticali, a bombè, laterali. Ricordò che spostando un'asticella e spingendo contemporaneamente indietro la base, si apriva un piccolo vano con una corta chiave già inserita nella toppa. Gli ordini, precisi: Non si tocca; e lei. ubbidiente, mai aveva osato farlo. La mamma lasciava invece che lo usasse come piano per la bambola di pezza, specie in quelle serate lunghe d'inverno che arrivano presto e tardano a morire nella notte. Glielo lasciava trasportare anche in cucina, qualche volta. Lei lo depositava sul cilindro di ferro del braciere e, accucciate le gambe sotto il calore della coperta che lo ricopriva, vi adunava sopra le sue scatoline, piene di fili di cotone colorato. Intrecciandoli ricamava su una stretta pezzuola tesa sul tombolo come una pelle di tamburo. Era sempre la stessa: solcata in basso da un alone marrognolo, frastagliato come una rigatura di sangue; le teneva compagnia, anche quando la mamma non c'era. Ma se bussavano alla porta, come da consegna, doveva, dí corsa, rimettere a posto lo scrigno. E nella corsa, spesso, forse per l'eccitazione, se lo sentiva palpitare tra le mani come cosa viva e avvertiva, leggero ma continuo, il fruscio delle carte. E, come per incanto si sprigionava un odore di felci e di talco, saporoso e intenso che le restava per tutta la giornata, come un'impronta, nelle nari. E allora desiderava tanto poterlo aprire, scoprire i piccoli grandi segreti della madre e sfogliare i suoi ricordi. Leggere le lettere del padre, odorare i bigliettini profumati e accarezzare la piccola testina di corallo del serpentello che un giorno aveva visto tra i capelli della madre. Nel ricordo riebbe lo stesso vuoto di paura di un tempo. Sembrava spuntare, tra i capelli, all'altezza della tempia della madre come una sanguisuga o come un presagio di sventura, ecco. E la sventura ci fu. Il babbo appeso sotto la trave del soffitto, la maschera che gli pendeva sul petto e, per cappello, mollemente pendenti piume di struzzo colorate. Ma del babbo preferiva ricordarsi la foto della ditta Profeta. Una foto ingiallita come il vestito della madre, in piedi, dietro le volute barocche della sedia, addossata al tendaggio dello studio fotografico. Con gli anni l'occhio sinistro del padre nel nitrato d'argento del fissaggio, si era completamente consunto. Sembrava cieco e l'arco gli si accentuava nel folto cespuglio delle sopracciglia. L'incipiente brizzolatura di barba e baffi e la calvizie, già accentuata, richiamava come per un'intesa sotterranea il panciotto a righi che smoriva in un alone grigiognolo, piú triste dello sguardo smarrito del padre.
Invece, lei, la madre, enigmaticamente seducente tentava di nascondersi dietro un ventaglio spagnolo. Del babbo ricordava una dagherrotipia, da giovane, allo specchio. Ma forse non era lui. Forse anche questa foto sarà nello scrigno. Potrei aprirlo: avrebbe rivisto la scrittura minuta del padre, come una traccia di sangue sul foglio, e leggere i "caro amore" copiati dal segretario galante e osservare, tra le righe, confusa per amore, l'alone della lacrima della madre caduta mentre leggeva le promesse dell'amato. Ma avvertiva, dentro, come un fastidio, un senso di noia. No, non ho nessun desiderio di aprirlo, né curiosità. Se lo disse con forza per allontanare qualsiasi tentazione. Anzi pensò al modo di disfarsene subito. Lo chiuderò in soffitta. Ma proprio mentre lo pensava, percepí immediata e palese, l'assurdità di un richiamo.
Nello specchio la sua immagine scomparve e lei, la donna, la viva, divenne morta. Fu un attimo, una sensazione veloce ma la ebbe. Si girò a riguardare la madre. Il viso sempre lo stesso, anzi piú smunto; e dalle occhiaie chiuse, era spuntata una lacrima sorridente come una promessa. Pensò ad un effetto della diffusione fioca della luce delle candele che creavano degli strani riverberi o ad un ultimo trasudamento dei tessuti orbitali. Ma, come per smentirla, ancora riebbe la stessa sensazione di prima. Lei viva, morta; e la morta, viva nello specchio. E vide netta l'immagine mentre spostava il piano inferiore dello scrigno, come per aprirlo. Capí allora che era una premonizione. E comprese che lei, la mamma, voleva che lo aprisse. Forse ci sarà una lettera, giuntami da chissà quale lontananza e vuole che io la legga. Forse sarà di Tommaso. Indecisa non sapeva cosa fare. Ma nello specchio, lo scrigno sembrava giganteggiare nel richiamo. Diventava ora luminoso ora piú vivo: tanto che anche le scrostature sembravano scomparse. E la madre, lei, dal letto, ora sul viso aleggiante la maschera d'un sorriso, le mormorava a labbra chiuse un tacito invito. E le sembrò di riudire la cantilena che le canticchiava da bimba con la sedia spostata all'indietro, dondolandosela sulle gambe. E, come allora, risentì la cadenza della voce della madre e le parole.

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E rivide, lei, la luna della canzone cosí come se la immaginava un tempo: una donna azzurra nel velo che la fasciava con due seni larghi, nudi, rossi come due mele mature e con nel viso una crescente fioritura. Una magalda feconda come la terra e come la terra difficile da arare. O, a volte, quando era triste e pensava al padre se la immaginava con un mantello nero e, sotto il velo, il viso triste come un angiolo di dolore del Dùrer. E, proprio come allora avverti un tenero fruscio dietro le spalle. Le candele ora avevano preso una fiamma intensa e viva e forte: la luce saliva ora ad imbuto e riluceva sul viso screpolato del dipinto. E dall'alto, proprio in corrispondenza della screpolatura, cadeva un pulviscolo denso e bianco come da un'ampolla di ceneri umane. E, come la prima traccia si posò a terra e sul letto, avvertì dietro di lei la presenza oscura di un corpo. Si girò: nello specchio spiritata negli occhi con tra i capelli un fermaglio a forma di diavoletto, c'era una donna. I nastri a sbuffi del balzo non le lasciavano vedere niente altro. Nemmeno lo scrigno. Ora il vestito ampio, formava come una corolla trasparente ad ombrello, come quello di una medusa. L'azzurro del velo, orlato di fiori gialli e il rosa delle maniche avevano il segno di un'antica promessa. E come una promessa risultava anche il verde evanescente della veste. Ma il viso era accidioso, forzato, imbruttito, da vecchia. Un tempo doveva essere bella, pensò. Una donna da ammaliare. Dolce e sensuale insieme. I gesti della donna però erano duri, incattiviti. Capi, più che vedere, che, con calcolata freddezza, toglieva dallo scrigno ad uno ad uno degli oggetti. Ora un rotolo incartapecorito e annodato da un nastrino viola, ora un foglio, ora dei piccoli fogli rettangolari dove erano incollati delle relique, ora un atto notarile, ora una piccola sacca di canapa da dove usciva una ciocca di capelli biondi. Tra gli oggetti c'era anche un diario e un altro minuscolo scrigno simile al primo. Si fece avanti per vedere meglio. L'immagine della donna nello specchio ebbe come uno scatto, proprio come l'aveva avuto lei. Lei era la donna, ora: ebbe pietà di sè e uno strano rimescolio del sangue l'avverti del nuovo stato. Allungò la mano, prese il rotolino ingiallito e lo srotolò. La prima cosa che vide fu una stella e nei successivi piccoli riquadri un cuore e un mondo. Li fissò attentamente. Dovevano rappresentare con le parole una storia di un amore lontano, sognato. Le ricordò la fiaba delle dodici giovani che ballavano intorno al tiglio del giardino.
Era un'estate dolce e saporosa. Svaporanti e per mano le giovani danzavano. Il contadino le vide: era notte. La luna giocava tra i rami, nascondendosi come uno gnomo. Sull'asino colmi come uovi i due sacchi di grano da macinare al mulino. S'innamorò della piú bella. Aveva un cappello di penne di pavone, e a lui il pavone piaceva. Nel suo cortile, tra l'aria dei cotogni dell'aia, razzolavano come principi a coda distesa. Pronto l'augurio: Crescete e restate sempre giovani. E pronta la risposta: Così il tuo sacco. E il suo sacco, davvero, lievitò: come toglieva la farina, subito ritornava pieno. Anzi, piú pieno del pieno. Da ragazza il racconto le era sempre sembrato un'antica magia. Come quando, d'estate, a volo, prendendo le lucciole luccicanti sui prati, a gara con Rocco e Fernando, poi le schiacciavano sul muro rugoso, di pietra, della fontana. Le lucciole si sbriciolavano crepitando sotto le dita lasciando un alone giallognolo, come di fuoco da un lato e un nero fumo dall'altro. L'Inferno e il Paradiso, lo chiamavano e come ogni gioco aveva una sua sconfinata tristezza. E le ritornò ora piú vivida che mai. Come per trovare una conferma, percorse le righe dello scritto, racchiuse a mò di fermaglio dai due quadratini istoriati. E lesse:

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Si riconobbe immediatamente. Era lei, lì; ardeva e fumava nel fuoco e intorno le strida, i rumori, la polvere. Da un balcone era stato dato il segnale: il fumo saliva frignando nell'aria e nell'aria soffriva, in pianto, la voce dell'amato. Era lei, sì: la strega, la maligna, l'astuta come era stato detto al processo. E, come in un cinematografo, il racconto si snodò in immagini struggenti e amare. Rivide il bosco, il fiume, la valle e il fienile: quí la raggiunsero gli armigeri, qui le segnarono per sempre il viso.
Eccitata, mandò uno strillo. E subito le immagini scomparvero ma subito ripresero.
Altri luoghi, altre terre, altri amori. E sempre più sola e infelice la fine. Ora fu un uomo, ora un re, ora una regina infedele. In lei, come il tempo, fuggiva la vita. Come per una maledizione. Visitò paesi mai sognati, nè mai visti. E di tutti avrebbe potuto dire minuzie e frammenti. Come quando fu sorpresa nella stanza del marito con l'amica. Era una donna bruna: il suo lungo sguardo le suscitava improvvise tenerezze e assurdi tenebrosi desideri. Ricordava le sue calze nere che si attaccavano come sanguisughe allo stretto bustino rosa. E la pelle: muschiosa, dorata, profumata. A toccarla, la carne sembrava sfogliarsi tra le dita, tanto che restavano le impronte. Rivide il canapè, le scarpe accollate e il rosso sanguinolente delle piume che come due labbra si aprivano sul tenero collo. Sprofondare in lei, vivere in lei era stato il suo sogno: e vi riuscí, una sera, tra i lampi oscuri dell'inverno. Era dicembre: l'amica aveva bussato piano, come per non farsi male. Tornava da un incontro segreto, rapido come i temporali d'estate. Luogo dell'incontro: la carrozza dell'amato. Il conducente era un vecchio tabaccoso.
Fumava continuamente, spurgando in un fazzoletto i suoi umori e ad ogni sputo, zac, una frustata sulla groppa dello stanco cavallo che si rimetteva in moto, al galoppo. L'aveva salutata compiacente davanti alla porta dell'amica con un'occhiata vogliosa ma fugace. Con ansia e timore si era confidata con Anna. Anna le stringeva dolcemente le mani, con garbo. La pressione la calmò. I battiti del cuore attutiti. E come scivolandoin un sogno si era trovata, nuda, tra le sue braccia. E così furono trovatela mattina dopo in un flusso di sangue.
Dallo scrigno i ricordi affioravano come polle d'acqua, incessanti. Erano ora brani vivi di sangue rappreso che tornavano a vivere. Prese tra le mani come una reliquia dei cartoncini legati e inceralaccati con un nastro rosso. La colpi la parola: Conversazioni. Erano particolari a spezzoni di un quadro del Carpaccio che si componevano in uno schema, a triangolo. Dispose i cartoncini sul freddo marmo e ne segui lo svolgimento.

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Nel settimo e nell'ottavo cartoncino c'erano punzonate due bustine trasparenti con del colore verde in uno e azzurro nell'altro. Ai lati, impresse, in un nero scuro e violento le parole: i cieli della sera.
Cercò di scacciare le immagini che già si affollavano dense. Respirò prima piano, poi con avidità estrema e, lentamente, l'immagine nello specchio sfuocò nella sua. Allora capì: per lei i cieli della sera non erano mai venuti.
Gerardo Pedicini, settembre 1980