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  • Presentazione a catalogo

Una pittura di idee

Il rischio è quello di farsi coinvolgere dalla preziosità della rappresentazione. E di cedere su questa strada alla suggestione del colore (sapiente, ricercato, per certi valori antico); al richiamo dei requisiti compositivi (un barocco inventato, d'impronta indefinibile, assai vicino a soluzioni di tipo sacro); alla sicurezza del disegno, che senti magistrale (l'indagine sulle mani, anzitutto, accanto a certi particolari dell'abbigliamento), sino al punto da rinunciare, compiaciuti, ad ogni riflessione sui contenuti dell'opera.
Un polo di attrazione che alla lunga può rivelarsi negativo. Perché spesso sono proprio queste doti espressive o la perizia dinanzi a certi nodi del linguaggio a favorire la fuga dell'osservatore dall'impegno che il tema richiede. Così accade che la lettura si fermi alla facciata, e gli interrogativi non trovino neppure il tempo per venire fuori.
E invece la pittura di Annabella Dugo è densa di domande. Dalla scelta del tema, unico, e insistente, al ricorso a certe esemplificazioni legate al mondo dello spettacolo; dalla raffinata ricerca degli elementi descrittivi alla concreta presenza di un oggetto che si fa simbolo o feticcio.
Un accavallarsi di "perché" che stentano a trovare subito una risposta, ma che a soddisfarli con ordine, ricostruendo a ritroso, cioè, l'andamento di quella ipotesi-guida che ha portato l'artista a certe conclusioni, offrono una sicura chiave di lettura. Sicura, s'intende, quanto lo può essere l'ottica stessa secondo la quale è stato visto il problema, che non è certo di quelli solvibili con il solo aiuto della ragione.
L'idea-matrice infatti è di quelle che i filosofi stessi hanno meno indagato, ma che oggi l'incertezza dei ruoli, l'annullamento di certi spazi e la reciprocità di molte funzioni rendono quanto mai attuale e angosciante.
Siamo in sostanza al tema dell'identità che è poi quello del travaglio per la sua scoperta di una valenza ambigua, dove tutto viene messo in discussione, anche i cosiddetti ancoraggi.
Sei certo di essere quello che sei? E chi sei? Al di là di quella etichetta anagrafica che ti dice maschio o femmina, o di quella sociale che ti fa operaio o intellettuale, riesci ad avere una tua identità? O non ti sorge il dubbio che tu la stia cercando ancora; che il terreno sul quale ti sei mosso finora non sia proprio il tuo; che il tuo modo di essere potrebbe anche cambiare?
No, non è una mera questione di sesso. O almeno non è soltanto questa. Certo le esemplificazioni pittoriche della Dugo svolgono in sostanza solo questo aspetto, ma bisogna convenire che non c'è altra via per la rappresentazione visiva dell'ambiguo, del bivalente, di uno stato d'incertezza a livello psichico. L'instabilità nel proprio ruolo, la ricerca di una vera identità non sono raffigurabili se si esclude la manifestazione esteriore più vistosa, che è appunto quella sessuale.
Il problema è antico. La celebre statua ellenistica dell'ermafrodito è forse il primo tentativo di rappresentare la coscienza di una indifferenziazione dei sessi. Il mondo classico definiva l'orgasmo "piccola morte", proprio perché nel momento della copula l'uomo e la donna perdono se stessi e nell'inconscio di ognuno affiora il mito dell'androgino.
II quale, nonostante tutte le raffigurazioni realizzate nelle varie epoche, in effetti esiste solo come atteggiamento mentale, nato spesso in opposizione ai rigorosi confini tra i due sessi ed al rifiuto preconcetto di qualsiasi forma di bivalenza. In altri termini si tratta di liberarsi di quella che Carolyn Heilbrun chiama la "prigione del genere", anche se questo non significa diventare bisessuali.
L'androginìa risulta così uno stato di tensione, un momento dialettico per raggiungere una meta che non sta né dalla parte del maschio né da quella della femmina, ma è solo un ponte tra queste opposte frontiere per liberare l'uomo dalle restrizioni e da certe regole di condotta.
Forse che il mondo va verso un erotismo indifferenziato? Annabella Dugo non fa profezie, ma avverte la presenza sempre più diffusa di uno status umano che non è né stabile né sicuro, anche se ha superato la paura e l'angoscia di essere "diverso”. D'altra parte Saba Sardi sostiene che la pluralità sessuale è propria del genere umano e che la consuetudine di una sola pratica, mono o eterosessuale che sia, costituisce pur sempre una grossa limitazione.
La digressione non è superflua. La pittura della Dugo ha in sé gli umori di questa problematica, colta s'intende a livello sensibilistico, soprattutto nei riflessi che essa può avere sul piano del comportamento e dell'equilibrio di ognuno. E le sue storie stanno a testimoniare una ricerca di identità che se in apparenza è soltanto un fatto di genere, in sostanza coinvolge tutta quanta la condizione dell'uomo e della società che lo esprime.
E i personaggi da spettacolo? Le maschere? I costumi di scena? Direi che sono delle scelte forzate e felici al tempo stesso. L'immediato riscontro che un certo tipo di problemi ha nel mondo dello spettacolo e soprattutto il disinvolto comportamento dei suoi esponenti offrono senza dubbio un campionario assai vasto cui attingere.
Senza tener conto che trattandosi di una materia alquanto scabrosa un'ambientazione per così dire dorata evita ogni rifiuto preconcetto e riscatta la monotonia del tema unico. Così il frak e le piume, i merletti e le bambole se contribuiscono a fissare i caratteri di un ambiente e di una tipologia assolvono anche la funzione di catturare quella fascia di pubblico che di solito storce il muso e inalbera riserve morali a difesa del proprio disimpegno.
Resterebbe a questo punto da parlare dei valori formali della pittura di Annabella Dugo: del colore che ha la magia di certi affreschi; dell'equilibrio compositivo delle sue tele; di quel foro che sigla i quadri come un ironico segno d'identità o come una nota di civetteria; degli oggetti che materializzano un certo elemento del racconto e lo enucleano dal testo; di quella cura del particolare che esalta qua e là la rappresentazione. Ma tutto è così in luce, e soprattutto così aderente al discorso che ogni considerazione mi pare una giunta tardiva.
Piuttosto quello che colpisce è la scoperta di una tecnica narrativa che a mio avviso è la sola possibile per questo tipo di rappresentazione: un taglio che nel rigore dell'impianto figurativo riesce a trovare spazi rapidi e appena accennati, dove la vicenda prende fiato per farsi poi più incisiva e pressante.
Il colore ovviamente fa da spia a certe pieghe del racconto per cui quello delle bambole e dei loro vestiti denuncia ad esempio, echi infantili, mentre sopravvivenza confuse e sfocate di quella stagione accompagnano o fanno da contraltare alla rappresentazione di una realtà ambigua.
L'impressione che se ne riporta è quella di una ricerca che abbia ceduto in parte al sentimento, per cui la contaminazione scioglie qualche grumo d'ironia (ma ce n'è poi?) e dà all'opera un sapore di sofferta partecipazione.
Gli interrogativi che trovano una risposta nel travestimento sono già risolti. L'angoscia sta in quelli che non riescono ad avere una voce.
Nino d’Antonio, novembre 1978