Surfing in North Miami

GLI AMORI PROFANI

Aprire gli occhi sul mondo e percepire la sofferenza, la tragicità, i dolori, l'ambiguità, il malessere diffuso, è terribile.
Adattarsi a tutto ciò è faticoso e difficile.
Spesso per trovare una propria identità, per mettere fine agli interro­gativi angosciosi che ci tormentano, per non avere paura del futuro, cerchiamo affannosamente valori umani, ideali di cui la nostra epo­ca è davvero povera.
D'altro canto venir fuori dalla sottocultura, fatta di luoghi comuni e di conformismo che uccide con la scusa di volerti aiutare, dalla retorica inutile, è come vivere la situazione di un diverso, di uno che prova altre emozioni, altre gioie, altre sofferenze e vuole comunicar­le, ma non vi riesce. Si finisce con l'essere emarginati, pur non essendo tali. Si finisce col vivere una cultura ed una sessualità esasperate.
Rivolgere l'attenzione a tutta questa miseria, alle verità distorte, al mutare delle cose secondo l'ottica con la quale le guardiamo, all'inferno-paradiso di tutti i giorni, alla violenza ed al grottesco rivestito di sontuosi orpelli e pensare di trasporlo simultaneamente nell'opera pittorica (che già da alcuni anni vado realizzando) diventa indispensabile come mi è indispensabile il respirare.
Gli elementi ricorrenti sono pochi e si mescolano tra loro, ripropo­nendo interrogativi sempre diversi.
C'è anzitutto l'androgino, protagonista del nostro tempo, ma anche di tempi passati. E c'è l'adolescente, che non avendo raggiunto la completa formazione fisica e psicologica, per certi aspetti è vicino all'androgino.
Ed ancora il tempo totale, chiuso, circolare, ricorrente ed in esso il passato, con i suoi specchi intagliati, con i giocattoli, i drappi, le piume che rivestono di una pellicola splendente il decadente, il marcio, l'oscuro.
Il tempo, i mutamenti, l'ambiguità, le metamorfosi, il trasformismo, sono i temi che filtrati attraverso la lontana adolescenza e l'attuale atteggiamento mentale, che non rende diverso l’uomo dalla donna, rafforzano sempre di più il mito dell’androgino esasperandone la tensione, l’incertezza, l’incomunicabilità.
Annabella Dugo, marzo 1980


CARA LUIGINA,

come mi hai chiesto, con buona volontà, cercherò di parlarti di me e della mia pittura.
Quando dipingo, pur lavorando, perché è un lavoro di pensiero ma anche fisico, non avverto la fatica perché posseggo un talento naturale che mi porta a concretizzare qualunque idea che mi viene in mente. I bozzetti infatti sono del tutto simili ai quadri e lo sono anche i piccoli disegni a penna che butto giù quando voglio fissare un'idea.
Lavoro con un senso di appagamento che mi procura un piacere che non è paragonabile a nessun altro piacere.
Il mio scopo è quello di comunicare il puro linguaggio pittorico, al di là del soggetto che tratto.
Amo il sedimentarsi delle pennellate e delle macchie che si sovrappongono l'una dopo l'altra; le trasparenze; la direzione delle pennellate che riprende il gesto della mano e del braccio.
Il linguaggio pittorico nei miei quadri è alla base di tutto; esso vuole valorizzare la vera pittura che è stata travolta dalla grafica, dalla fotografia e da altri mezzi di comunicazione più moderni, ma stilisticamente e funzionalmente diversi.
Mi accorgo infatti che la vera pittura sono in pochi a comprenderla e a saperla rendere attuale.
Per quanto riguarda i temi, preferisco "giocare" con ironia e mi accorgo che talvolta sono provocatori. Possono, cioè, portare il fruitore a concentrarsi più sul tema del quadro o della mostra che sul modo di fare pittura. Questo dipende dal fatto che in giro c'è tanta brutta pittura che viene contrabbandata per valida, al punto che ormai chi osserva il quadro, da sempre educato a valutare più la scelta del tema che la qualità della pittura, non bada neppure più alla parte "seria" di questo lavoro che è appunto non tanto esprimere concetti, quanto esprimerli con una veste estetica valida e attuale che non ha niente a che vedere con quella del passato.
Nel nostro mondo ormai tutto è prodotto secondo valori estetici, esiste, potremmo dire, un "estetismo diffuso". Tutto è bello, perfetto, levigato, raffinato, nel campo della creazione di oggetti di consumo perché si è attinto e si continua ad attingere a piene mani dall'arte di alcuni decenni fa. Quindi la pittura attuale, pur cercando un valore estetico, non vuole che esso sia lo stesso della grafica, della fotografia, dell'arredamento, dei design, della moda; allora deve azzerare tutto e ricominciare daccapo per proporre un qualcosa di completamente diverso che non abbia una veste appetibile commercialmente e che non ricalchi la ricerca della perfezione insita nell'arte del passato.
Il pittore di oggi cerca di produrre qualcosa che non sia solo un concetto e nient'altro (infatti l'arte concettuale è ampiamente superata) ma che abbia un valore estetico nuovo e del tutto particolare. Egli non cerca più l'eleganza del segno "bello" e dei colori "appropriati", non cerca di andare incontro ai gusti degli altri, non cerca compromessi.
Il pittore oggi, con coraggio, annulla tutto il bagaglio culturale che possiede; annulla le presenze incombenti ed inquietanti dei prodotti della moda, del fumetto, della fotografia, della pubblicità, che poi talvolta affronta con ironia nelle sue opere, e cerca di essere se stesso.
Quando guardo la mia pittura spesso penso: "io non sono di fronte alla mia opera ma sono nella mia opera ovvero sono la mia opera". E sono in un mondo che ha occhi solo per i fenomeni giganteschi del nostro tempo, che è distratto da mille cose, da mille immagini, da mille problemi.
Così io affermo la mia pittura, senza compiacimenti, senza agganciarmi per farmi trainare, senza un punto fisso che mi sostenga, senza avvalermi di quanto è già stato fatto. E l'affermo perché l'arte è l'eterna nascita, perché è il flusso vitale, perché è solo dell'uomo.
I miei quadri sono schegge e non basta vederne uno; è necessario avere sotto gli occhi l'intera sequenza.
La pittura è per me un godimento impareggiabile che mi esalta e che mi fa tralasciare tutte le altre cose che diventano inevitabilmente secondarie.
Vorrei aggiungere che amo molto la natura e che mi piace viaggiare cercando di condensare esperienze diverse: l'esperienza globale del mondo; il geograficamente visto e il non visto ma percepito; il lìnguaggìo primitivo del bambino ed i suoi balbettìi che non sono altro che l'accostarsi a qualcosa, "il principio".
Come vedi torniamo sempre all'origine, alla nascita, alla ricostruzione di un linguaggio attraverso complessi meccanismi e talvolta sofisticati di annullamento e di azzeramento di cultura.
Anzi, ti dirò che oggi come oggi la cultura addirittura mi infastidisce,la trovo pesante e indigesta. Mi piace la leggerezza della non-cultura che può permettersi di essere gioiosa, soffice, impertinente e contraddittoria, senza dover scendere dal piedistallo.
Ce n'è abbastanza per “un'utopia”?
Ciao, Annabella
Vicenza, 20.07.89


IL PROCESSO CREATIVO

Quando elaboro l'idea per un quadro entro in un'altra dimensione, in uno stato particolare che mi fa agire e pensare in funzione della pittura, sia che dipinga materialmente sia che non. Mi succede di provare una eccitazione febbrile, una ebbrezza caparbia che investe le cose piegandole alla mia volontà, così, mentre nei rari periodi di riposo mi sento come svuotala e continuo a compiere sforzi per convincermi che esisto e che sono utile, quando giunge il momento di dipingere tutto diventa secondario. Tutto diventa superfluo se paragonato al processo creativo ed il rapporto che poco a poco nasce con il quadro assume caratteri di un innamoramento.
Prima comincio a vedere con il terzo occhio, l'occhio della mente, dentro e fuori di me. Colgo i messaggi esterni e li sovrappongo alle immagini mentali. Vedo i colori che attendono inerti e sento in me l'urgenza, che supera tutte le altre, di sciogliere l'enigma, di vedere oltre il visibile.
La pittura si sviluppa poco a poco con il crescere della concentrazione e ne ricavo una sensazione di forza e di pienezza. Man mano che i colori affiorano sulla tela, aumenta in me l'impressione di potenza e del raggiungimento di un qualcosa d'indefinibile che è posto molto in alto.
Partecipo con tutto il mio corpo a questa traslazione e provo un diffuso benessere. A volte un senso di levitazione. Arrivo a non avvertire il mio corpo e ad annullare gli stimoli estranei all'azione pittorica trasmessi al cervello.
Non provo stanchezza o dolore, o freddo o fame, ma solo una specie di escalation dei sensi che sembrano sconfinare. Nel momento esatto in cui smetto di lavorare, gli stimoli temporaneamente soppressi si affollano, impietosi, tutti insieme.
Quando l'opera sta per essere terminata, il rapporto con il quadro è ormai giunto all'acme. Si potrà continuare ad amare per molto tempo ancora quella superficie dove i colori sembrano essersi combinati al di là della coscienza dell'artista ed il quadro eserciterà ancora un richiamo su colui che lo ha creato. Ma nel guardarlo dopo, egli non proverà l'eccitazione spasmodica, il senso di grandezza, l'esaltazione che ha provato nell'eseguirlo.
Nel guardarlo dopo, egli sarà il "fruitore dall'opera', che è ben poca cosa in confronto alla magnifica comunione precedente.
In più il quadro, oscenamente, esprimerà il difuori del didentro e il didentro del difuori. E questo gli farà orrore.
Annabella Dugo, Vicenza 26 gennaio 1982


L'OGGETTO NELL'OPERA

Vi sono alcuni oggetti che per me hanno un valore particolare. Uno di questi è lo specchio: superficie brillante, riflettente, magica.
Ogni volta che mi accade di guardare un grande specchio ovale o una di quelle splendide specchiere del Settecento, dove alla luminosità del centro si oppone una cornice giocata sui toni opachi e traslucidi, mi viene da pensare: "e se lo specchio avesse una memoria? Se potesse evocare i ricordi?"
Certo, una qualche particolarità la possiede perché, sempre che mi specchio, mi vedo con altri occhi, con una memoria che non mi appartiene; sovrapposte alla mia immagine, altre immagini di donne e nei loro volti leggo drammi, sofferenze, languori, passionalità.
Queste magnifiche presenze-assenze sollecitano nella mia memoria ricordi che non mi appartengono e che sono palesemente per me privi di radici, distruggendo subdolamente il presente.
Quello che mi affascina è la complessità e l'armonia di questo oggetto, la staticità e nello stesso tempo la mobilità. E' infatti un oggetto semplice ma complicato perché riflette la realtà e, pur rimanendo fisso e immobile nel riflettere immagini in movimento, appare in sostanza mobile. E quando poi il passato si intromette nel presente vanificandolo, tutto può accadere.
Se lo specchio ha memoria, se custodisce ricordi che riesce a trasmettere attraverso una mente sensibile, esso è una presenza vitale e se altri oggettihanno pure valore carismatico o simbolico, lo specchio è un oggetto che annulla e complica lo spazio ed il tempo, aggiungendo allo spazio reale quello riflesso e al tempo presente, l'ossessione del passato.
Annabella Dugo, Vicenza 26 gennaio 1982.